Addio al giornalista trapanese Alberto Stabile
La memoria di trent’anni di storia e di guerre in Medio Oriente. Alberto Stabile, giornalista trapanese scomparso oggi, è stato questo, ma anche molto di più.
Laureato in giurisprudenza, aveva iniziato la carriera giornalistica negli anni Settanta come cronista per il quotidiano L’Ora, seguendo numerosi casi di cronaca giudiziaria. In seguito era passato a La Repubblica, per la quale ha raccontato per anni le complesse vicende del Medio Oriente.
Nonostante non vivesse più a Trapani, il suo legame con la città e con la provincia è sempre rimasto forte. Per alcuni anni organizzò cicli di incontri e spettacoli sull’isola di Favignana; a Trapani partecipò alle due presentazioni del volume L’Ora – Edizione Straordinaria.
Fu proprio il quotidiano L’Ora a formarlo, professionalmente e umanamente. Un’esperienza che ha continuato a raccontare fino agli ultimi anni. Cinque anni fa, rilasciò questa intervista alla nostra giornalista Chiara Conticello, che riproponiamo di seguito.
Come e quando è entrato a far parte della redazione de L’Ora?
Ho cominciato alla fine del 1971 come collaboratore delle pagine sulla scuola, scrivendo sull’occupazione del nuovo pensionato da parte degli studenti universitari fuori sede. Poi, nel 1973 sono stato assunto come praticante.
Quale insegnamento di Nisticò le è stato utile per il suo lavoro di giornalista?
Tutti. Nisticò insegnava senza farlo sembrare, con le sue scelte quotidiane di direttore. Aveva un’idea molto precisa del mestiere, come una testimonianza continua, e del giornale come punto di approdo del nostro impegno. Il giornale sopra tutto, anche sopra le ambizioni personali. Oggi, i giovani giornalisti non la pensano così, mettono avanti se stessi, perché si naviga in un mare in grande crisi.
Lei è stato un cronista di punta per il giornale, soprattutto durante gli ultimi anni della prima guerra di mafia. Come li ha vissuti in quanto giornalista del primo quotidiano antimafia in Sicilia?
Noi non pensavamo di svolgere una missione. Facevamo il nostro lavoro al meglio, secondo i criteri deontologici e professionali che valgono per tutti i giornalisti sotto tutte le latitudini. Ma la mafia non era un argomento sul quale la stampa mainstream si impegnasse molto. Anche le istituzioni e, di conseguenza, la società hanno trascurato a lungo il fenomeno preferendo ignorarne la gravità. Così il nostro ha finito col diventare un lavoro di oggettiva controinformazione. Quando io facevo il cronista questa situazione di stagnante sottovalutazione diventò anche più pesante perché proprio in quegli anni la mafia attaccò frontalmente lo Stato uccidendo poliziotti, magistrati, politici. Molte delle vittime erano persone con le quali avevamo, o avevamo avuto, un rapporto di quotidiana frequentazione funzionale al nostro lavoro. Erano, o erano state, le nostre fonti. Sono stati avvenimenti molto dolorosi anche sul piano personale.
C’è qualche aneddoto che potrebbe raccontare sulla sua esperienza in redazione?
La redazione era un luogo dove si lavorava molto ed anche in orari difficili, ma dove c’era anche spazio per l’ironia, la battuta di spirito, il nonsense. Nessuno si prendeva troppo sul serio a meno che non volesse incorrere nelle frecciate dei colleghi. Un giorno, il mio capocronista del tempo, Mario Genco, grandissimo giornalista e scrittore, davanti alle critiche eccessive del caporedattore Etrio Fidora, replicò chiudendosi dentro un armadio a muro, fra le copie arretrate…
Come veniva organizzata la giornata in redazione?
Si cominciava a lavorare alle sei del mattino perché L’Ora era un giornale della sera che doveva essere nelle edicole o per strada nel primo pomeriggio. Lettura dei giornali, breve rassegna dei temi del giorno e poi tutti fuori a cercare notizie, chi in Questura e dai Carabinieri, chi in Tribunale, chi nei pronto soccorsi cittadini. Chi al telefono con i politici e gli amministratori la cui giornata cominciava molto dopo della nostra. Alle 11 chi doveva scrivere era di ritorno in redazione, o se stava seguendo un fatto ancora in divenire, dettava da fuori il pezzo ai dimafonisti.
Alle 11.30 la prima edizione destinata alla provincia era chiusa. Quindi si lavorava alla ribattuta e all’edizione destinata alla città. La più completa. Qualche volta, per poter inserire un’ultim’ora, si scendeva in tipografia e con l’aiuto dei tipografi si interveniva direttamente sul telaio della pagina già composta. Se c’era da tagliare, si dettava un’aggiunta al pezzo direttamente al linotipista. Alle 2 del pomeriggio la grande rotativa cominciava a tirare. E prendere fra le mani la copia del giornale fresca d’inchiostro era un’emozione che si rinnovava ogni giorno. Si parla molto dei giornalisti de L’Ora, anche per la tragica scomparsa di Mauro De Mauro, Giovanni Spampinato, Cosimo Cristina e della scuola di giornalismo che ha rappresentato. Ma L’Ora non avrebbe rappresentato un’esperienza così importante per il giornalismo italiano se non avesse avuto la collaborazione di una squadra di tipografi straordinaria.
Il giornale L’Ora viene tuttora ricordato. Ultimamente ha avuto una via dedicata, unico caso in Italia. Perché, secondo lei, nonostante siano passati ventotto anni dalla chiusura, è rimasto impresso nella mente di molti?
Perché è stato un giornale in cui si è identificata una larga parte dell’opinione pubblica di Palermo e della Sicilia. L’Ora è un giornale che è riuscito ad entrare nel costume della società a cui si rivolgeva e perché è stata un’esperienza civile. Sicché, quando L’Ora ha smesso di uscire, la gente ha percepito che era finita un’epoca.
Per quanto riguarda la chiusura del giornale vi sono varie ipotesi: alcuni pensano che sia stata una conseguenza della Svolta della Bolognina, altri che sia stato un modo per zittirvi a pochi giorni dalla strage di Capaci. Secondo lei, quali furono le vere cause?
La mancanza di editori, cioè di imprenditori disposti ad investire nel giornale per trarne un giusto profitto. Questa, nell’evoluzione del mercato editoriale italiano, era diventata la conditio sine qua non per il successo di qualsiasi iniziativa editoriale, come aveva dimostrato a partire dal 1976 l’esperienza de La Repubblica. La Bolognina non credo che c’entri molto. Affidare il destino di un giornale nelle mani di un partito che sta per dissolversi mi sembra francamente chiedere troppo. Quella di ricorrere al partito editore per mantenere in vita un giornale d’informazione mi sembra un’anomalia tutta italiana e una pretesa assurda. Forse, per trovare una spiegazione alla chiusura, bisognerebbe approfondire i motivi per cui non si trovò un editore disposto a rischiare. Ma io non ho una risposta perché ero già andato via da parecchi anni.
Qual è l’eredità lasciata ai posteri dai giornalisti del quotidiano uccisi per mano mafiosa?
Una grande lezione di rigore professionale e morale.
Qual è, invece, quella lasciata dal quotidiano stesso?
Come ha raccontato benissimo Giuliana Saladino, una delle grandi firme de L’Ora destinata a rimanere nella memoria collettiva, L’Ora è stato il capitolo fondamentale di un grande Romanzo Civile che un gruppo di intellettuali ha scritto a Palermo, su Palermo e nonostante Palermo.
Dopo l’esperienza palermitana, ha lavorato per testate nazionali come La Repubblica. Come è cambiato il suo modo di fare giornalismo dopo L’Ora?
È cambiato soltanto il contesto in cui ho continuato ad esercitare il mestiere, prima come inviato di politica interna e poi come corrispondente dall’estero. Ma quello che ho imparato nella bottega de L’Ora è stata la mia borsa degli attrezzi che mi è servita ovunque e in tutte le circostanze in cui mi sono ritrovato.
C’è un quotidiano odierno che le ricorda le inchieste seguite da L’Ora e che potrebbe porsi come suo erede?
Non saprei. Il mondo della carta stampata è in crisi e si va evolvendo continuamente. Non credo ci sia un giornale soltanto di inchieste. Ecco, se non c’è, bisognerebbe inventarlo. Forse sarebbe una buona idea.